venerdì, giugno 19, 2015

GIL SCOTT HERON - Small talk at 125th and Lenox



Tra la fine dei 60’s e l’inizio dei 70’s il movimento per i diritti dei neri americani divenne sempre più attivo, militante, con obbiettivi precisi e modalità d’azione sempre più dirette e meno compromissorie (dai Black Panthers alla Nation of Islam tra i tanti soggetti). Parallelamente molti artisti si affiancarono alla lotta dai più noti (Stevie Wonder, Ray Charles, James Brown) a quelli più underground. Questi ultimi sfornarono una serie di album seminali, spesso durissimi, che rimangono una colonna sonora spesso dimenticata ma che merita ancora ascolto e attenzione soprattutto in momenti in cui i diritti acquisiti allora non sembrano essere ancora tanto rispettati.

Le precedenti puntate della rubrica sono qua:
http://tonyface.blogspot.it/search/label/Black%20Power%20Revolution

Un esordio fulminante , crudo, brutale, violento, esplosivo, politicamente scorretto e diretto, fastidioso, urticante.
Strumentazione essenziale, stile minimale, scarno, scheletrico: congas e voce.
Solo in rari episodi si avvale dell’uso del piano a tessere alcune stupende melodie su profondi temi blues.
GIL SCOTT HERON è uno scrittore e poeta, l’album “musicale” solo un pretesto per far conoscere la propria opera letteraria e l’unico modo concesso dal produttore Bob Thiele per pubblicare qualcosa e recuperare qualche soldo per proseguire eventualmente la carriera.
Il titolo prende origine dal nightclub in cui viene registrato in poco tempo, davanti ad una ventina di persone, l’intero album.
Gil rende omaggio sulla copertina alle sue fonti d’ispirazione: Richie Havens, John Coltrane, Nina Simone, Otis Redding, Billie Holyday, Josè Feliciano,, Langstone Hughes, Malcom X, Huey Newton e l’amico, futuro essenziale collaboratore, Brian Jackson.

Si parte con l’immortale “Revolution will not be televised” destinata a diventare, nella successiva versione suonata su “Pieces of a man”, il brano che marchierà a fuoco la sua carriera, e si prosegue attraverso irriverenti e violenti attacchi a razzismo, establishment, consumismo fino all’amaro e cattivo sarcasmo di “Whitey on the moon” dove si parla delle pessime condizioni della popolazione nera nei giorni (1969) in cui l”uomo bianco” spende una fortuna per andare sulla Luna (un altro brano destinato a diventare un classico della sua carriera).
Al 10° pezzo, “The vulture” , risuonano le incerte note del pianoforte ad accompagnare uno splendido, quanto drammatico, blues che fotografa in chiave poetica la condizione del ghetto nero con l’ “avvoltoio” pronto a ghermirne anima e cuore.
“Enough” riporta alla dura e lucida analisi politica della storia dei neri americani, mentre è il piano ad accompagnare l’afro funk “Who’ll pay reparations for my soul ?” in cui la voce di Gil splende in tutta la sua drammatica tonalità.
“Everyday” chiude l’album con una ballata soul blues armonicamente articolata e particolarmente suggestiva.
In mezzo il criticato, controverso, discutibile e politicamente scorretto poema “The subject was faggots”, brano dalla posizione piuttosto ambigua che ironizza pesantemente su omosessuali e travestiti (ovviamente sorprendente per chi si erge a difesa dei diritti di deboli ed oppressi) ma che è stato talvolta interpretato come una satirica critica agli omofobi.
Una poesia che va comunque contestualizzata ad un periodo, alla giovane età di Gil all’epoca e alla esplicita volontà di provocare e “non fare prigionieri”, il cui contenuto fu spiegato sbrigativamente da Gil come resoconto di un episodio accadutogli ad un party.
Resta comunque una macchia che ritorna frequentemente come arma da utilizzare da parte dei suoi detrattori e da chi ne legge storia e musica in modo superficiale e sbrigativo.
L’album vende discretamente e lo segnala tra i personaggi più interessanti della scena black (e non solo) dell’epoca, raccogliendo buone e autorevoli recensioni.

Tratto da "Gil Scott Heron - The bluesologist" (Edizioni Volo Libero)
http://www.vololiberoedizioni.it/gli-scott-heron/

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