sabato, gennaio 31, 2015

Classic Rock



Ho il piacere di poter collaborare da un po' con CLASSIC ROCK
( https://www.facebook.com/ClassicRockItalia ) e volevo segnalare la mia presenza in questo nuovo numero con la recensione del concerto di PATTI SMITH a Parma il 2 dicembre 2014 e la recensione del nuovo dei Giardini di Mirò.

venerdì, gennaio 30, 2015

Gennaio 2015. Il meglio



Anno appena iniziato e già qualcosa che non è improbabile finisca nelle top 2015.
Tra gli stranieri Gaz Coombes, D’Angelo, Bettye Lavette, Charlatans, Sleater Kinney
In Italia Salvo Ruolo, Big Mojo, Dellera, Mother Island, Kicca.

ASCOLTATO

GAZ COOMBES - Matador
Gaz Coombes non ha mai ricevuto riconoscimenti adeguati alla qualità e allo spessore delle sue capacità compositive, neanche ai tempi dei successi con i Supergrass, micidiali autori di brillanti e freschi brani pop ma che seppero evolversi con album sempre più strutturati e interessanti fino allo scioglimento nel 2010.
In questo splendido secondo album solista esplodono mille influenze, dal kraut rock (con un occhio particolare ai mai dimenticati Neu!) alla psichedelia, spesso non lontano dalle ultime esperienze di Paul Weller e Damon Albarn ma senza farsi mancare episodi più tradizionalmente vicini alle influenze di sempre (pop, Beatles, Kinks, il primo David Bowie).
Album modernissimo, interessante, completo, efficace dall'inizio alla fine.
Un piccolo capolavoro.

CHARLATANS - Modern nature
Buono il ritorno dei CHARLATANS.
Approccio moderno con un velo costante di buon vecchio psych beat sound, tanto white funk soul, canzoni avvolgenti.
Molto cool.

D’ANGELO & the VANGUARD - Black Messiah
Interessantissimo viaggio nella black music più sperimentale, tra hip hop, funk, Parliament/Funkadelic, lo Sly and the Family Stone dei 70’s, Gil Scott Heron, Erykah Badu, Marvin Gaye, jazz ma soprattutto Prince, principale, palese riferimento. Il tutto condito da un mood abrasivo e “cattivo”.

BETTYE LAVETTE - Worthy
Non sbaglia un colpo la vecchia Bettye.
Grande album di intensissimo e spessissimo soul blues. Sono tutte cover riprese in maniera stupefacente e con arrangiamenti mozzafiato a partire dalla spensierata “Wait” dei Beatles trasformata in una dolente ballata blues o in “Unbelieveable” di Dylan che diventa un nerissimo swamp blues o la “Complicated” degli Stones di “Between the buttons” un duro blues soul.

WILLIE WEST and the HIGH SOCIETY - Lost soul
Ottimo album di southern soul, swamp blues, funk e pieno di umori di New Orleans. Grande voce, arrangiamenti scarni (con uno splendido Hammond a costante collante del tutto), brani di prima qualità.

LUCKY BROWN - Mistery Road
Ottimo funk soul strumentale, grooves pazzeschi in pieno stile mid 70's (Meters, James Brown ma soprattutto quella miriade di gruppi minori e sconosciuti che hanno impestato l'aria di 45 giri dimenticati e gracchianti).
Notevole.

SALVO RUOLO - Canciari patruni ‘un è l’bittà
Cinque anni dopo “Vivere ci stanca” il ritorno discografico di Salvo Ruolo pur se breve (ma l’immediatezza e l’urgenza sono di primaria importanza in “Canciari patruni ‘un è libittà”) segna profondamente la scena cantatutorale italiana per il coraggio e lo spessore della proposta. Magnificamente prodotto da Cesare Basile l’album affonda nelle radici più recondite della Sicilia ribelle, parlando una lingua arcaica, antichissima che marchia a fuoco storie di briganti e resistenti alle forzature della “malaunità” , di coloro che si opposero si ai Borboni che ai Savoia.
Le sonorità passeggiano su uno stretto sentiero che si erge tra i dirupi del blues e le gole del folk, l’approccio è quello, duro ed elegante allo stesso tempo, che fu del De Andrè di “Creuza de ma”. Nei sette brani si respira l’antica e ormai dimenticata aria del Mediterraneo, intesa non come entità geopolitica ma spirituale, anima e cuore del nostro passato che torna costante a pulsare nel presente.
Un disco importante, intenso, avvolgente, personale, duro e commovente.

BIG MOJO - Dancing skeletons
Cesare Ferioli ha una lunga storia alle spalle come batterista di alcune delle principali bands della scena bolognese, transitando dal punk al rock n roll, con i Jack Daniel’s Lovers e Dirty Hands, approdando ora al Wu Ming Contingent.
Parallelamente gestisce questo affascinante progetto con il nickname di BIG MOJO in cui riesce nell’apparentemente impossibile impresa di coniugare elettronica, ritmiche house e downtempo con blues, rhythm and blues, soul e jazz dance. Aiutato da un lungo stuolo di amici e collaboratori “Dancing skeletons” è un avvolgente e trascinante viaggio tra suoni deep blues che sembrano arrivare da qualche fattoria abbandonata in riva al Mississipi e ritmiche che pulsano come da un album dei Daft Punk. 
Straniante, originalissimo, potentissimo.

KICCA - Kicca
La cantante vicentina trapiantata da tempo in Francia dopo due ottimi album con gli INTRIGO prosegue la carriera con “Choose a colour” intestato solo a lei ma che non si discosta dal consueto percorso a base di forti influenze di white soul, rafforzate da pennellate più rock, arrangiamenti curatissimi con una bellissima versione modernizzata al punto giusto di “You really got me” dei Kinks.
E’ evidente il groove alla Amy Winehouse (ma anche Duffy, Adele, Alexia Coley) ma con un piglio fresco, attualissimo e una voce personalissima e immediatamente riconoscibile. C’è tanto Northern soul, le classiche atmosfere del miglior pop italiano degli anni ’60 (da Mina alla Vanoni), un po‘ di rocksteady ska (“Joe Black & penny moon”).
Album delizioso.

VERDENA - Enkadenza vol. 1
Il precedente “Wow” continua a rimanere per me un piccolo capolavoro tanto questo nuovo attesissimo lavoro lascia perplessi. Molta confusione, arrangiamenti eccessivi e pomposi, buone canzoni, qualche scivolone eccessivamente autoindulgente, pochi guizzi.
Buon disco, per carità, pieno di riferimenti, influenze, dal marchio immediatamente riconoscibile ma che sembra riportare la band bergamasca alla “normalità”.

DELLERA - Stare bene è pericoloso
A quattro anni dall’esordio il bassista degli Afterhours torna con una altro, delizioso, album solista in cui emerge sempre l’intensa vena beatlesiana tardo 60’s (e McCartneyiana primi 70’s) accoppiata ad un gusto pop appena tinto di psichedelia cara a Cesare Cremonini.
In mezzo tanto altro, rock, wave, indie. Come sempre ottimo.

SLEATER KINNEY - No cities to love
Ritorno con il botto dopo un lungo periodo di assenza per le tre (ex?) riot girls. Sound abrasivo e minimale ma potente con arrangiamenti curati, ampia gamma di riferimenti (dal punk al 70’s hard, dal glam al grunge, via Siouxsie e addirittura Franz Ferdinand).
Il mix finale è riuscitissimo e di impatto. Notevole.

RED BARAAT - Gaadi of truth
Da Brooklyn un’incredibile brass band che mischia funk, musica indiana, cumbia, ethio jazz e perfino influenze balcaniche. Grande groove, sapori speziatissimi, strani, inediti.
BHANGRA FUNK !

BAXTER DURY - It’s a pleasure
Il figlio di Ian Dury prosegue una dignitosa e personale carriera solista con un misto di elettronica, echi della voce e della impostazione del padre e un approccio molto Blur.
Davvero non male.

MOTHER ISLAND - Cosmic pyre
Notevole la fusione tra atmosfere acido/psichedeliche, la voce femminile che insegue senza problemi quella di Grace Slick e un sound che attinge dai tardo 60’s/primi 70’s con un approccio vintage stoner che rende il tutto affascinante e intrigante. E arrivano dal profondo Veneto.

JOHNNY MOX - Obstinate sermons
Notevole il secondo album di Johnny Mox, a due ann idall’esordio con il già ottimo “We=trouble”. Un muro sonoro, spesso sperimentale con evidenti connessioni al punk e alle esperienze più estreme dei primi Atari Teenage Riot ma anche Sonic Youth o Rage Against the Machine (vedi “Praise the stubborn”) ma che si affianca sorprendentemente e in modo assolutamente armonico con un’anima blues, gospel, soul, spiritual (tra Tom Waits e Nick Cave).
Notevole !

I.D.P. (Istituzioni di Diritto Proletario) - Beato chi c’ha n’occhio
Da Roma un ottimo EP con quattro brani a base di ska e swing tra testi impegnati e altri più leggeri in pieno stile Statuto e Vallanzaska oltre che debitore della grande tradizione dello ska moderno da Specials a Bad Manners).

ASCOLTATO ANCHE
CARMEN CONSOLI (zzzzzzzzz, ronf...), DECEMBERISTS (soporifero alt-pop) , ENDLESS BUMMER (buon punk rock+garage+rock n roll. Formula trita ma sempre gradevole) BELLE & SEBASTIAN (disco di rara bruttezza...), CATERINA DA SIENA (interessante e personale cantautorato aspro e diretto tra PjHarvey e Ani Di Franco), FOUR TRAMPS (Solidissimo blues rock tra 60’s e 70’s da Rolling Stones a Free, via ZZTop, Johnny Winter, Black Crowes e Jack White), POOR MAN STYLE (ottimo mix di reggae, dub, tracce rocksteady, ragamuffin), TEMPLE OF DEIMOS (potentissimo e “pulito” stoner rock in odore di QOTSA), BLEEDING EYES (doom stoner potente e inquietante), MENACE BEACH (molto vicini alle Breeders ma senza la loro classe e stile).

LETTO

TERRY CHIMES - The strange case of Dr.Terry and Mr.Chimes
Bellissima, (auto) ironica, divertente, autobiografia di Terry Chimes, batterista dei primi (e ultimi) Clash, poi con Generation X, Hanoi Rocks e addirittura Black Sabbath, prima di abbandonare tutto (anche se è recentemente tornato a suonare, per diletto o poco più, con i Crunch a fianco di membri di Sham 69 e Cockney Rejects) e dedicarsi alla medicina chiropratica diventando uno dei dottori più conosciuti nell’ambito in Inghilterra. In mezzo aneddoti di ogni tipo, gustosi e simpatici.
Un po’ pesante l’ultima parte con la conversione al cattolicesimo con condimento di troppe “massime” buoniste e dolciastre ma libro consigliato.

NICCOLO’ AMMANITI - Io non ho paura
Più convincente il libro del film.
Ben scritto, scorrevole, interessante il soggetto e mirabile lo sguardo all’innocenza infantile sporcata dalla cupidigia degli adulti.

VALERIO MARCHI - Teppa
Interessantissimo viaggio nella storia della contro cultura giovanile dal Puer Barbaricus medievale ai Bucanieri, i Lords of Misrule inglesi, i Larrikins australiani, i Merveilleux francesi fino ai coatti pasoliniani e alle più conosciute forme moderne, dai Teds ai Mods, Skins e Punks e alle Street Gangs americane.
Tutto con un unico filo conduttore di opposizione strenua all’omologazione corrente e contro il potere dominante. Ricchissimo di documenti originali e citazioni.
v COSE & SUONI “RevoLuce” è il nuovo album di Lilith and the Sinnersaints, 12 brani (10 in italiano due in dialetto, nessuna cover).
A marzo per Alphasouth/Audioglobe.

Un bel po' di date in programma da metà marzo, a breve la lista.

www.lilithandthesinnersaints.com
https://www.facebook.com/LilithandtheSinnersaints

Mie recensioni su www.radiocoop.it

IN CANTIERE

“L’uomo cangiante, Paul Weller, The Modfather” , la mia biografia su PAUL WELLER, a fine febbraio 2015, per VoloLibero.
A breve le date di presentazione, affiancato alla chitarra da ALEX LOGGIA degli STATUTO che eseguirà una serie di brani di Jam, Style Council e Weller.

“RevoLuce” è il nuovo album di Lilith and the Sinnersaints, 12 brani (10 in italiano due in dialetto, nessuna cover).
A marzo per Alphasouth/Audioglobe.

Un bel po' di date in programma da metà marzo, a breve la lista.

giovedì, gennaio 29, 2015

Get Back. Dischi da (ri)scoprire



Ogni mese la rubrica GET BACK ripropone alcuni dischi persi nel tempo e meritevoli di una riscoperta.

Le altre riscoperte sono qui:
http://tonyface.blogspot.it/search/label/Get%20Back


THE CRUNCH - Busy making noise
Sulo Karlsson (Diamond Dogs), Terry Chimes (Clash), Dave Tregunna (Sham 69), Mick Geggus (Cockney Rejects) e Idde Schultz (Docenterna) è un elenco di nomi niente male per chi ama un certo tipo di sound.
Si sono messi insieme per puro divertimento, suonano occasionalmente e nel 2013 hanno pubblicato questo dignitoso album che spazia tra punk alla Clash, un po’ di street rock, un tocco di reggae e ottime canzoni piene di sana energia. Niente di nuovo o di sconvolgente ma molto fresco e bello da ascoltare.

L’UOVO DI COLOMBO - s/t
Interessante album, autoprodotto, l’unico pubblicato dalla band nel 1973, a base di un prog piuttosto duro a tratti (con l’Hammond pulsate alla Graham Bond) anche se prevalentemente influenzato da Orme e prima PFM.
Ottimi i brani, grandi capacità esecutive e disco piuttosto godibile anche per i non appassionati del genere. Due componenti avevano già suonato nei Fholks (band romana famosa per avere aperto per Pink Floyd e Hendrix al Piper e per una buona attività live). Dopo lo scioglimento i vari componeneti entrarono a far parte di diverse bands minori. Solo il batterista Ruggero Stefani trovò il successo con gli Alunni del Sole.

BOBBY SOLO - Bobby Folk
Difficile scindere Bobby Solo dall’immagine di “Elvis all’amatriciana de noantri” e da “Una lacrima sul viso”.
Nel 1970 si dedicò però nell’album “Bobby Solo Folk” ad un omaggio abbastanza riuscito ad una serie di brani più o meno conosciuti dell’America folk country blues, traducendo in italiano brani di Dylan ("Don't Think Twice, It's All Right" da "Freewheelin" del 1962 diventa "È inutile sedersi e domandarsi" mentre "Farewell Angelina" composta per Joan Baez è una più canonica "Addio Angelina" , Simon & Garfunkel, la grande “In the ghetto” resa celebre da Elvis, "Portami con te" (la "Fly to the moon" di Nat King Cole). C'è una buona "Mrs Robinson" con testo italiano di Francesco Guccini, un brano del Kingston Trio e qualche altro episodio interessante.
Bobby canta come sempre impostato e un po' ingessato ma il lavoro è più che dignitoso.

mercoledì, gennaio 28, 2015

Jook



Un nuovo articolo a cura di ANTONIO ROMANO.

JOOK
a different class


Proiettiamoci nella prima metà degli anni ‘70, in quel periodo forse poco approfondito dal punto di vista “sottoculturale”, nel quale gli skinhead a Londra erano pressoché spariti ed i superstiti avevano un look composto da basettoni, capelli che cominciavano ad allungarsi fino a lambire le spalle, pantaloni larghi, colletti giganti, e la colonna sonora di un tipico teenage rebel della working class era il funky, il roots reggae ed il glam rock.

Siamo in Scozia.
C’è Ralph Kimmett, detto Ian, che lavora come pubblicitario ma scrive canzoni e vorrebbe formare una band; c’è Trevor White, chitarrista, che dopo lo scioglimento della sua band, vorrebbe formarne un'altra; poi ci sono il bassista Ian Hampton ed il batterista Chris Townson, che aveva suonato nella band psych degli John’s Children.
Li fa incontrare quello che poi sarebbe diventato il loro manager, John Hewlett, anch’egli già nei John’s Children, al basso. Dopo le prime prove si trovano in sintonia e decidono di trasferirsi a Londra e di chiamarsi JOOK, dal titolo del vecchio brano r’n’b di Gene Chandler “Duke (pronunciato Jook) of Earl”. Questi i prodromi della nascita di una band dalla vita brevissima ma che, nonostante non abbia mai raggiunto il successo o la fama, è stata riscoperta e rivalutata grazie al recente revival mondiale della scena glam rock.

Il look per niente glitterato, ma stradaiolo, fatto di capelli dal taglio mod, maglie da rugby, bretelle e anfibi assicurò alla band un folto e fedele seguito di bootboy nei pub londinesi in cui suonavano, anche se come affermò Trevor White, “i Jook erano etichettati dalla stampa come skinhead ma eravamo rudies, non skinhead. Volevamo essere duri, ma non violenti. Volevamo solo divertirci ed esibirci per i kids della classe operaia, non solo a livello estetico ma dando loro quello che veramente volevano sentire.”

E nei loro concerti i ragazzi avevano veramente quello che volevano sentire: un rock’n’roll duro con solide radici nei 60s inglesi di Rolling Stones, Kinks, Who, chitarre alla Pete Townshend, britishness e street-appeal, brani di quelli che è impossibile non battere mani e piedi a tempo, testi di ribellione adolescenziale e ritornelli orecchiabili: quello che sarebbe stato successivamente definito bovver rock.
I Jook come band sono rimasti in attività per un paio d’anni o poco più, dalla fine del 1971 alla metà del 1974, il tempo di incidere una manciata di singoli che all’epoca ebbero scarso successo, ma che contengono delle perle leggendarie come “Bish Bash Bosh”, la auto-celebrativa “Oo oo Rudie”, “King Capp” dedicata al personaggio dei fumetti Andy Capp, di cui Ian Kimmet portava spesso una toppa sulla maglia, la bellissima “Aggrovation Place” ed il loro inno, l’arrogante e riottosa “Crazy Kids”.

La loro breve e travagliata esistenza, purtroppo per loro vissuta all’ombra del paragone con i più famosi Slade e Sweet, come quella di un sottobosco di decine di altre band del glam rock minore, fu costellata di occasioni perse e disavventure, come quando, secondo quanto raccontano, guardando la tv si accorsero che i Bay City Rollers, anch’essi scozzesi, due settimane dopo aver condiviso con loro il palco, avevano fregato il loro look modificandolo quel tanto che bastava.
Ad ogni modo, è una band che consiglio vivamente tutti di approfondire, oltretutto si sono recentemente riuniti con un concerto lo scorso agosto negli USA.
Per convincervi uso le parole del loro cantante Ian Kimmett, un po’ troppo egocentriche a dire il vero ma tutto sommato veritiere se le collettivizziamo all’intero periodo del glam/bovver rock: “Quello che avevamo in comune era l’opinione che il rock fosse diventato stagnante ed era arrivato il tempo perché una ventata di freschezza lo spazzasse via.
La pensavamo così davvero…tutti noi.
Abbiamo ispirato tutti con la nostra ribellione contro tutte le noiose morali tradizionali e le rock band del tempo.
La nostra attitudine catturò l’immaginazione del pubblico un po’ di anni prima dell’avvento del movimento punk. Abbiamo anticipato tutto questo.”

martedì, gennaio 27, 2015

Giornata della memoria - Erno Erbstein

A cura di ALBERTO GALLETTI

27-01-2015
Settant’anni oggi da quel 27 gennaio 1945, giorno in cui l’Armata Rossa varcò i cancelli di Auschwitz.
Vorrei ricordare, questo (triste) anniversario ancora con una storia legata al calcio, il protagonista di oggi è Erno Erbstein, artefice quasi sconosciuto del grande Torino.
Nato a Nagyvaradi, allora Ungheria oggi Oradea,Romania Erno Erbstein, ebreo, si trasferisce a Budapest dove intraprende la carriera di studente e coltiva la sua passione per il gioco del calcio. Si iscrive al Budapest Atletikai Klub (BAK) dove ben presto trova posto nella squadra della sezione calcio come centrocampista, nonostante l’interesse del grande e glorioso MTK e i forti legami tra questi e il BAK, entrambi club a forte identità ebrea, il giovane Erno rimane a fare parte della più modesta società atletica.


Una formazione del Budapest A.K. anni ‘10

Classe 1898 (cent’anni di differenza con mio figlio!) viene arruolato nell’esercito Austro-Ungarico, dove combatte sul fronte italiano dal 1916 prima sergente, poi sottottentente.
Tornato vivo dal fronte insieme ai compagni d’armi è parte di un’insurrezione armata che occupa la posta centrale di Budapest; sulle barricate della capitale magiara da' dimostrazione delle sue doti di leader.
Tornato alla vita civile riprende col calcio al BAK e trova impiego come agente di cambio, frequenta i circoli calcistici nei caffè di Budapest dove i migliori allenatori della scuola danubiana, discutono dell’evoluzione delle tattiche calcistiche, la sua grande passione. La crescente paranoia anti-semita che pervase Budapest a partire dal 1920, unita agli scarsi progressi come giocatore e alla promozione del BAK alla serie A sfuggita di un soffio fanno si che Erno, ora in compagnia di Jolena, sua fidanzata, accetti la prima vera offerta professionistica che gli sia mai pervenuta: l’Olimpia Fiume gli offre un contratto per la stagione 1924-25, un anno vissuto tumultuosamente nella città adriatica appena annessa all’Italia fascista, così fortemente legata alla propaganda fascista e al suo regime che ne fece un simbolo del proprio potere, prestigio e funzionalità, ma allo stesso tempo così ancora decisamente austro-ungarica in quanto città libera all’interno della grande Ungheria fino a pochi anni prima. La stagione si conclude con la sconfitta dell’Olimpia negli spareggi promozione, dove Erno sbaglia il rigore decisivo contro il Vicenza ma trova ingaggio presso i biancorossi guidati dal connazionale Janòs Beky.
Nel 1927 si imbarca per una torunee negli USA con il Maccabi Budapest, squadra che ricalcò i fasti dell’Hakoah Wien che girò il nord-America due anni prima, si impiega come agente di cambio occupazione che mantiene per due anni fino al crollo di Wall Street del 1929 e gioca per i Brooklyn Wanderers, quell’anno tra mille difficoltà Erbstein fa rientro a Budapest.

Di ritorno in patria Erno concentra tutti i suoi sforzi sulle tematiche calcistiche, varianti ed evoluzioni tattiche da mettere in pratica una volta ottenuto un ingaggio.
Tradizionalmente la scuola danubiana fu influenzata dal passing game scozzese, molto diverso dal più diretto approccio inglese fatto di dribbling, kick & rush, questo spiega la grande considerazione per i maestri ungheresi nel nostro paese dove si praticava una brutta copia con risvolti banditeschi del gioco inglese. Erno (come parecchi della sua generazione) fu grandemente impressionato dalle grandissime batoste dispensate dai Glasgow Rangers nel loro tour a Budapest negli anni 10, e fu lesto ad imparare la lezione.
Nel frattempo qualcuno in Italia si ricordò di lui il Bari gli offre un ingaggio per la stagione 1928/29, passa quindi alla Nocerina e poi al Cagliari con il quale ottiene la promozione alla serie B.
Ritorna a Bari per una stagione e poi si trasferisce a Lucca, Serie C, dove nel giro di tre stagioni porta la Lucchese in Serie A e ad un onorevole 7° posto finale.


In piedi tra i suoi ragazzi alla Lucchese

Nel frattempo, siamo nel 1938, il disgraziato regime fascista sempre più schiavo della propria inettitudine e dell’alleato nazista, ha inasprito le restrizioni per i cittadini di origine ebraica fino alla promulgazione delle infami leggi razziali.
Per Erno, sposato e con due figlie non è più possibile continuare una vita pubblica normale in una piccola città di provincia, anche le ragazze non possono più essere iscritte alla scuola pubblica.
Gli viene in soccorso il Commendator Ferruccio Novo, presidente del Torino, al quale non era sfuggita la grande capacità di Erno, gli offre un ingaggio, nonché protezione per lui e per la famiglia.
Il Torino chiude il campionato 1938/39 al secondo posto dietro al Bologna, ma l’ottimo risultato ottenuto finalmente alla guida di una grande squadra non riesce ad arginare la crescente preoccupazione di Erbstein per il precipitare della situazione italiana, decide così di fare rientro a Budapest, aiutati da Novo al termine di un viaggio avventuroso e dopo aver trovato riparo prima in Olanda da dove scappano quasi subito causa il procedere sistematico dei rastrellamenti (che risulteranno tragicamente fatali ad Arpad Weisz) la famiglia fa rientro nella capitale ungherese da dove Erno continuerà a collaborare con la dirigenza granata.
Novo gli ha offerto un lavoro come rappresentante della propria ditta tessile a Budapest, i due riescono anche a incontrarsi di nascosto per tracciare le loro strategie calcistiche, in una di queste occasioni Erbstein caldeggia, dopo che Novo gli chiese un parere, l’ingaggio dei due campioni del Venezia: Loik e Valentino Mazzola.

Le cose precipitano quando l’Ungheria viene invasa dai nazisti nel marzo 1944 e il governo fantoccio da questi instaurato comincia a collaborare allo sterminio degli ebrei ungheresi pianificato dai demoniaci gerarchi hitleriani.
Nel breve volgere di due mesi le SS riescono a ghettizzare l’intera popolazione ebraica dell’Ungheria e avviano il processo di deportazione che vede oltre 400.000 persone donne, uomini e bambini spediti su 150 treni verso la morte nei campi di concentramento in Polonia, all’apice di questo delirio di insana malvagità, 12000 ebrei ungheresi vengono tradotti ad Auschwitz ogni giorno. Le loro vite sono ormai disperate, le SS arrivano a Budapest ultima tappa del loro programma di annientamento, ma il destino viene loro incontro sotto le sembianze dell’insegnante di danza delle figlie, donna molto rispettata e conoscente del nunzio papale a Budapest.
Grazie a questa conoscenza le tre donne trovano impiego in una fabbrica di uniformi militari all’interno di un convento cattolico, situato sulle colline di Buda che, in quanto enclave vaticana gode di una teorica neutralità.
Il direttore della fabbrica, d’accordo con padre Pal Klinda rettore del convento, organizza un piano di rifugio per salvare quanti più possibili ebrei dalla persecuzione nazista. Dopo aver messo in salvo la famiglia, Erno realizza che l’unica possibilità di scampare è quella di costituirsi in un campo da lavoro e scampare la deportazione in attesa dell’arrivo dell’armata rossa.


Rastrellamenti a Budapest nel 44

Resiste grazie alla sua forte struttura atletica, i guardiani del campo, ungheresi, lo assegnano ad una squadra di posatori di rotaie. Un giorno mentre era in inquadramento gli si para davanti un uomo dalle sembianze note, non riusciva a crederci, era il suo attendente durante la prima guerra mondiale, ora caporale all’interno del campo, non si vedevano dal 1919.
Nel corso delle settimane successive i due riallacciarono un rapporto di amicizia e il caporale tolse più di una volta Erno dalla squadra lavoro, e riuscì anche a metterlo in comunicazione con la famiglia riuscendo a scortarlo, con varie scuse, fino a un telefono pubblico.
A dicembre di quel tremendo 1944 Erno decise che era tempo di scappare dal campo di prigionia, l’Armata Rossa era alle porte di Budapest, i comandanti del campo avevano sospeso le loro attività e cominciavano a condurre i prigionieri entro i confini tedeschi. Con l’aiuto dell’amico caporale,e forse con lui, riuscì a fuggire dal campo, nel gruppetto di cinque c’era anche Bela Guttman. Si rifugiò a Pecs a casa della cognata dove era nel frattempo riparata la famiglia da Budapest, fornita di nuovi falsi documenti, dopo le persecuzione delle croci frecciate di Niylas.
Rimase per mesi nascosto nel sottotetto per non insospettire i vicini, ma quando questi ultimi avvisarono che Niylas avrebbe setacciato la casa, la figlia Susanna, armata di grande coraggio, vestì i panni da infermiera e grazie ai suoi documenti di volontaria della croce rossa riusci a riportare il padre, fintosi ferito in guerra, a Budapest ormai assediata e sconvolta dalle rappresaglie rifugiandolo al consolato svedese, dove l’ambasciatore Raoul Wallenberg, si prodigava instancabilmente per salvare quante più vite possibili.
Rimase qui fino all’inizio dell’occupazione sovietica, quando (non si sa come) si ripresentò a Pecsi a casa della cognata.
A conflitto terminato Novo riuscì a farlo rintracciare e la famiglia Erbstein fece ritorno a Torino nel 1946. Erno cui il nome era stato nel frattempo cambiato in Egri dalle nuove autorità filocomuniste in patria nel tentativo di ungheresizzare l’ungheresizzabile e in ogni caso di de-giudeizzare il più possibile l’anagrafe, riprese la carica di consulente del presidente, ma nel ’47 divenne direttore tecnico dello squadrone granata.

La stupidità italica senza confine lo costrinse quell’anno a difendersi pubblicamente dall’accusa mossagli da alcuni di essere una spia sovietica e di aver palesemente sfavorito gli azzurri in una gara contro l’Ungheria di quell’anno: ne usci pulito a testa alta.
La squadra che aveva impostato otto anni prima al momento della sua fuga dall ’Italia era ora campione in carica, aveva vinto gli ultimi due scudetti.
Erbstein era convinto dopo tutti i suoi studi che potessero ancora migliorare e non sbagliava. Cominciò un lavoro di miglioramento della tecnica, della parte atletica e mentale, adottò appieno il sistema inglese adattandolo ai propri campioni, l’assiduo lavoro diede i suoi frutti, i successivi tre campionati furono per il Torino una corsa a sè, distacchi abissali in classifica e batoste dispensate un po’ ovunque in giro per l’Italia e uno stile di gioco che a detta di chi li vide, si vedrà ripetuto solo dagli Olandesi negli anni 70.
Erbstein era duttile, uomo di grande comunicativa e dai modi gentili ed educati, riusciva ad essere incredibilmente persuasivo, aveva occhio per i talenti e riusciva a scoprirli un po dappertutto sapeva essere disponibile al dialogo coi giocatori durante la settimana e deciso, determinato ed esigente con loro il giorno della partita, sapeva caricarli negli spogliatoi, lui stesso era stato un condottiero in campo e aveva avuto in gioventù più di un problema in patria dovuto alla durezza del suo gioco ma amava la manovra e l’uso del campo.
Credeva fermamente nel collettivo ma incoraggiava l’espressione del talento personale, riuscì a far capire ai suoi campioni quali erano i limiti (ampi) entro i quali potevano liberare il loro talento.
Nominato allenatore condusse la squadra a due trionfi consecutivi nei campionati 46/47 e 47/48.
Verso il volgere della stagione 1948/49 con il quinto scudetto consecutivo già praticamente cucito sulle maglie, Novo acconsentì alla richiesta del capitano Valentino Mazzola di portare la squadra a Lisbona per giocare l’amichevole d’addio del capitano del Benfica, Francisco Ferreira, grande amico del capitano granata.
La partita si giocò il 3 maggio 1949 in uno stadio gremito da oltre 40mila spettatori e vide il Torino sconfitto dalla compagine di casa per 4-3.


L’ultima partita: Lisbona 3 maggio 1949, Erbstein è il primo in piedi da destra.

L’indomani l’aereo che riportava a casa la squadra andò a sbattere contro il terrapieno della basilica di Superga mentre si apprestava a compiere l’atterraggio allo scalo torinese in condizioni metereologiche impossibili e una visibilità di soli 40 metri, in uno schianto orrendo che lasciò un intera nazione sgomenta.
Non ci furono superstiti, 27 componenti della spedizione granata e 4 membri dell’equipaggio. Tra loro Egri Erbstein, fiero ebreo ungherese, giramondo del calcio, scampato alle persecuzioni razziali del regime fascista e poi rocambolescamente all’olocausto perpetrato dai nazisti ai danni del suo popolo, ma non al suo destino.

Buona giornata, non dimentichiamo.

lunedì, gennaio 26, 2015

I peggior nomi delle band grind core



Mi ha sempre affascinato l’estremismo iconografico del grindcore anche quando (spesso o meno a seconda dei gusti) sconfina nel grottesco e nel ridicolo.
Soprattutto i nomi dei gruppi sono quanto di più fantasioso nella ricerca della frontiera più invalicabile della violenza verbale.
Il successivo elenco (ovviamente in chiave ludica e di curiosità) è una lista molto interessante in tal senso.


Gli ANAL CUNT sono sicuramente tra i più conosciuti (e violenti) in tal senso e sempre sulla stessa linea non si possono dimenticare gli ANAL SQUIRT MASSACRE e i finlandesi ANAL BLASPHEMY.
Tema molto gradito visto che si sono accodati (appunto..) anche gli ANAL BLAST, ANAL MAGIC, ANAL STENTCH, ANAL THUNDER (temibilissimi finlandesi) e i peruviani ANAL VOMIT.
Evoca strani pensieri il nome della band tedesca COCK AND BALL TORTURE.
CATTLE DECAPITATION non è male (soprattutto di questi tempi...) come SPERMSWAMP (dal logo edificante, vedi foto) ma secondo me nessuno supera gli olandesi RECTAL SMEGMA (e la loro hit Menstruation Cocktail , con tanto di video surreale).

Imbattibili i finlandesi (più brevemente conosciuti come 55GORE, ovvero il numero delle parole che compongono il nome...) Intracerebrally Consuming Cephalalgia Through The Cranium Macerating Debrisfucked Manure Ingested Remains Of The Mindfucked Cataplexic Wicked Mankind Whom Fistfucked The Progenies From TheDeepest Depths Of The Analmaggot Raped Human Pieces Of Erotic Shitmasses Which Gave Birth To Worthless Eunuchs As Traverty For Cumstained Whorefaced Sluts Enslaved By This Stupid Society Full Of Fetal Garbages. (il "dipinto" nelle prima foto è il logo del nome della band...).

Ci sono anche i messicani Paracoccidioidomicosisproctitissarcomucosis e i Kiss The Anus Of A Black Cat, i Cechi Mincing Fury And Guttural Clamour Of Queer Decay.
I polacchi ARYANTICHRIST mettono insieme un concetto semplicemente idiota mentre i MANIAC GOAT (la capra maniaca) brasiliani non riescono tanto nell’intento di spaventare con i loro (presunti) riferimenti satanici.
A cui non sono esenti, seppure un po’ incerti i russi ABSTRACT SATAN.
Di nuove capre pericolose in circolazione, questa volta in Olanda con i GOAT TERRORISM. Non male gli ABORTED HITLER COCK (duo formato da El Bukkake e El Fucko) o i londinesi CREAMING JESUS.
Che dire infine degli americani INTESTINAL STRANGULATION ?
O dei brasiliani I SHIT ON TOUR FACE ?

domenica, gennaio 25, 2015

La Scarzuola



La fine del mondo è la rubrica domenicale che va ad esplorare i luoghi abbandonati dalla storia o comunque estremi.
Nel caso specifico ne ho sentito parlare da Alberto Galletti e Charlie per la prima volta una settimana fa a Chiusi, durante la presentazione di Rock n Goal).
I precedenti post:
http://tonyface.blogspot.it/search/label/La%20fine%20del%20mondo


Tra Montegiove del comune di Montegabbione, in provincia di Terni sorge La Scarzuola.
Conosciuta per la città-teatro, concepita e costruita nel ventesimo secolo dall'architetto milanese Tomaso Buzzi che la intese come prototipo della "città ideale".
Edificata sull’impianto di un preesistente insediamento francescano ospita, tra l’altro, un’inusuale immagine del santo affrescata da un pittore che probabilmente vide di persona il Poverello.
Già conosciuta come luogo frequentato da San Francesco, nel dicembre 1957, Buzzi iniziò i lprogetto della sua città ideale inserendovi il linguaggio ermetico dell'aristocrazia massonica del Settecento.
Dal 1958 al 1978, l'architetto progettò e costruì una grande scenografia teatrale che egli definì "un'antologia in pietra" che permise il recupero di esperienze visive del passato: Villa Adriana per la palestra, piscina, terme per Villa d'Este (Tivoli), i sette edifici nell'Acropoli, Bomarzo per l'effetto di gioco e meraviglia (barca, Pegaso, mostro).
Alla morte di Buzzi, nel 1981, la città era stata realizzata solo in parte ma, grazie agli schizzi lasciati, l'erede Marco Solari terminò l'opera. Come diceva lo stesso Buzzi: «Alla Scarzuola, salvo la parte sacra, tutto è teatro».

sabato, gennaio 24, 2015

Monica Ertl



Una storia interessante che riprendo da questo link: http://contropiano.org/articoli/item/26827, tradotto da Cubadebate.cu, da Ida Garberi

Ad Amburgo, in Germania, erano le dieci meno venti della mattina del 1° aprile 1971. Una bella ed elegante donna dai profondi occhi color del cielo entra nell’ufficio del console della Bolivia e, aspetta pazientemente di essere ricevuta.
Mentre fa anticamera, guarda indifferente i quadri che adornano l’ufficio. Roberto Quintanilla, console boliviano, vestito elegantemente con un abito oscuro di lana, appare nell’ufficio e saluta, colpito dalla bellezza di quella donna che dice di essere australiana, e che pochi giorni prima gli aveva chiesto un’intervista.
Per un istante fugace, i due si trovano di fronte, uno all’altra. La vendetta appare incarnata in un viso femminile molto attraente. La donna, di bellezza esuberante, lo guarda fissamente negli occhi e senza dire nulla estrae un pistola e spara tre volte. Non ci fu resistenza, né lotta. Le pallottole hanno centrato il bersaglio. Nella sua fuga, lasciò dietro di sé una parrucca, la sua borsetta, la sua Colt Cobra 38 Special, ed un pezzo di carta dove si leggeva: “Vittoria o morte. ELN”.
Chi era questa audace donna e perché avrebbe assassinato “Toto” Quintanilla?

Nella milizia guevarista c’era una donna che si faceva chiamare Imilla, il cui significato in lingua quechua ed aymara è Niña o giovane indigena. il suo nome di battesimo: Monica (Monika) Ertl. Tedesca di nascita, che aveva realizzato un viaggio di undici mila chilometri dalla Bolivia persa, con l’unico proposito di giustiziare un uomo, il personaggio più odiato dalla sinistra mondiale: Roberto Quintanilla Pereira. Lei, a partire da quel momento, si trasformò nella donna più ricercata del mondo.
Accaparrò le facciate dei giornali di tutta l’America. Ma quali erano le sue ragioni e quali le sue origini?
Ritorniamo al 3 marzo 1950, data in cui Monica era arrivata in Bolivia con Hans Ertl –suo padre–attraverso quello che sarebbe stata conosciuta come la rotta dei topi, cammino che facilitò la fuga di membri del regime nazista verso il Sud-America, terminato il conflitto armato più grande e sanguinonso della storia universale: la II Guerra Mondiale.
La storia di Monica si conosce grazie all’investigazione di Jürgen Schreiber. Quello che io vi presento è appena una piccola parte di questa appassionante storia che include molti sentimenti e personaggi.
Hans Ertl (Germania, 1908-Bolivia, 2000) alpinista, innovatore di tecniche sottomarine, esploratore, scrittore, inventore e materializzatore di sogni, agricoltore, ideologico convertito, cineasta, antropologo ed etnografo affezionato. Molto presto ha raggiunto la notorietà ritraendo i dirigenti del partito nazionalsocialista quando filmava la maestosità, l’estetica corporale e le destrezze atletiche dei partecipanti nei Giochi Olimpici di Berlino (1936), con la direzione della cineasta Leni Riefenstahl, che glorificò i nazisti.
Tuttavia, ebbe l’infortunio di essere riconosciuto dalla storia (e a sua posteriore disgrazia), come il fotografo di Adolf Hitler, benché l’iconografo ufficiale del Führer sia stato Heinrich Hoffman dello squadrone di difesa. Secondo alcune fonti Hans era assegnato a documentare le zone di azione del reggimento del famoso maresciallo di campo, soprannominato la “Volpe del Deserto” Erwin Rommel, nella sua traversata per Tobruk, in Africa.

Come dato curioso, Hans non appartenne al partito nazista però, malgrado odiasse la guerra, esibiva con orgoglio la giacca progettata da Hugo Boss per l’esercito tedesco, come simbolo delle sue gesta in altri tempi, ed il suo garbo ariano. Detestava che lo chiamassero “nazista”, non aveva nulla contro di loro, ma neanche contro gli ebrei. Per ironico che sembri fu un’altra vittima della Schutzstaffel.
Al termine della Seconda Guerra Mondiale, quando il Terzo Reich crollò, i gerarchi, i collaboratori e parenti del regime nazista fuggirono dalla giustizia europea rifugiandosi in diversi paesi, tra cui, quelli del continente latinoamericano, col beneplacito dei loro rispettivi governi e l’appoggio incondizionato degli Stati Uniti. Si dice che fosse una persona molto pacifica e non aveva nemici, cosicché optò per rimanere in Germania per un periodo, lavorando in assegnazioni minori al suo status, fino a che emigrò con la sua famiglia. Prima di tutto in Cile, nell’arcipelago australe di Juan Fernandez, “affascinante paradiso perduto”, dove realizzò il documentario Robinson (1950), prima di altri progetti. Dopo un lungo viaggio, Ertl si stabilisce nel 1951 a Chiquitania, a 100 chilometri della città di Santa Cruz. Arrivò fino a lì per stabilirsi nelle prospere e vergini terre come un conquistatore del XV secolo, tra la spessa ed intricata vegetazione brasiliano-boliviana. Una proprietà di 3.000 ettari dove avrebbe costruito con le sue proprie mani e con materia autoctona quella che è stata la sua casa fino ai suoi ultimi giorni; “La Dolorida.”
Il vagabondo della montagna, come era conosciuto dagli esploratori e ricarcatori, deambulava col suo passato in spalla, nell’immensa natura con la visione avida di sviscerare e catturare con la sua lente tutto quello che percepiva nel suo ambiente magico in Bolivia, mentre cominciava una nuova vita accompagnato da sua moglie e le sue figlie. La maggiore si chiamava Monica, aveva 15 anni quando è incominciato l’esilio e, qui incomincia la sua storia…
Monica aveva vissuto la sua infanzia in mezzo all’effervescenza dei nazisti della Germania e quando emigrarono in Bolivia imparò l’arte di suo padre, fatto che le è servito per lavorare poi col documentarista boliviano Jorge Ruiz. Hans realizzò in Bolivia vari film (Paitití e Hito Hito) e trasmise a Monica la passione per la fotografia. Certamente possiamo considerare Monica come una pioniera, la prima donna a realizzare documentari nella storia del cinema.

Monica è cresciuta in un circolo tanto chiuso quanto razzista, nel quale brillavano tanto suo padre come un altro sinistro personaggio che ella si abituò a chiamare affettuosamente “Lo zio Klaus”. Un impresario germanico (pseudonimo di Klaus Barbie (1913-1991) ed ex capo della Gestapo a Lyon, in Francia, meglio conosciuto come il “Macellaio di Lyon.”
Klaus Barbie, cambiò il suo cognome per “Altmann” prima di invischiarsi con la famiglia Ertl. Nello stretto circolo di personalità a La Paz,  quest' uomo guadagnò sufficiente fiducia da fare si che, lo stesso padre di Monica, sia riuscito a fargli ottenere il suo primo impiego in Bolivia come cittadino Ebreo Tedesco, ma poi si dedicò ad essere "consigliere" delle dittature sud-americane.
La celebre protagonista di questa storia, si sposò con un altro tedesco a La Paz e visse vicino alle miniere di rame nel nord del Cile ma, dopo dieci anni, il suo matrimonio fallì ed ella si trasformò in una militante politica attiva che appoggiò cause nobili. Tra le altre cose aiutò a fondare una casa per orfani a La Paz, ora convertita in ospedale.

Visse in un mondo estremo, circondata di vecchi lupi torturatori nazisti. Qualunque indizio perturbatore non gli risultava strano. Tuttavia, la morte del guerrigliero argentino Ernesto Che Guevara nella selva boliviana (ottobre del 1967) aveva significato per lei lo spintone finale per i suoi ideali. Monica –secondo sua sorella Beatriz–“adorava il “Che” come se fosse un Dio.” A causa di questo, la relazione padre e figlia diventò difficile per questa combinazione: un fanatismo aderito ad un spirito sovversivo; chissà quali fattori detonanti generarono una posizione combattiva, idealistica, perseverante. Suo padre fu il più sorpreso e, con il cuore rotto, la cacciò dalla tenuta. Forse questa sfida produsse in lui una certa metamorfosi ideologica negli anni 60, fino a trasformarlo in un collaboratore e difensore indiretto della Sinistra in Sud-America.

“Monica fu la sua figlia favorita, mio padre era molto freddo verso di noi e lei sembrava essere l’unica che amava. Mio padre nacque come risultato di una violenza, mia nonna non gli mostrò mai affetto e questo lo segnò per sempre. L’unico affetto che mostrò fu per Monika”, ha detto Beatriz in un’intervista per la BBC News.
Alla fine degli anni sessanta, tutto cambiò con la morte del Che Guevara, Monica ruppe con le sue radici ed ebbe un drastico cambiamento, fino ad entrare in pieno nella milizia con la Guerriglia di Ñancahuazú, come aveva fatto il suo eroe in vita, per combattere la disuguaglianza sociale. Monica smise di essere quella ragazza appassionata per la macchina fotografica per convertirsi in “Imilla la rivoluzionaria” rifugiata in un accampamento delle colline boliviane. Man mano che sparivano dalla faccia della Terra la maggior parte dei suoi membri, il suo dolore si trasformò in forza per reclamare giustizia, trasformandosi in una chiave operativa per l’ELN.
Durante i quattro anni che rimase reclusa nell’accampamento, scrisse a suo padre solamente una volta all’anno, per dire testualmente; non vi preoccupate per me… sto bene. Tristemente, non l’ha potuta vedere mai più; né viva, né morta.
Nel 1971 attraversa l’Atlantico e torna alla sua Germania natale, ed ad Amburgo uccide personalmente il console boliviano, il colonnello Roberto Quintanilla Pereira, responsabile diretto dell’oltraggio finale a Guevara: l’amputazione delle sue mani, dopo la sua fucilazione a La Higuera. Con quella profanazione firmò la sua sentenza di morte e, da allora, la fedele “Imilla” si propose una missione di alto rischio: giurò che avrebbe vendicato il Che Guevara.
Dopo avere compiuto il suo obiettivo, cominciò una battuta di caccia che attraversò paesi e mari e che trovò la sua fine solo quando Monica cadde uccisa nel 1973, in un’imboscata che, secondo alcune fonti degne di fede, gli tese il suo traditore “zio” Klaus Barbie.
Dopo la sua morte, Hans Erlt continuò a vivere ed a filmare documentari in Bolivia, dove morì all’età di 92 anni (anno 2000) nella sua tenuta ora convertita in museo grazie all’aiuto di alcuni istituzioni della Spagna e della Bolivia. Lì rimane sepolto, accompagnato dalla sua vecchia giacca militare tedesca, la sua fedele compagna degli ultimi anni. Il suo sepolcro rimane tra due pini e terra della sua Bavaria natale. Lui stesso si incaricò di prepararlo e sua figlia Heidi di rendere realtà il suo desiderio. Hans aveva affermato in un’intervista concessa all’agenzia Reuters: “Non voglio ritornare al mio paese. Voglio, perfino da morto, rimanere in questo nuova mia terra”.

In un cimitero di La Paz, si dice che riposano “simbolicamente” i resti di Monica Ertl. In realtà non sono mai stati consegnati a suo padre. I suoi appelli furono ignorati dalle autorità. Questi rimangono in qualche posto sconosciuto del paese boliviano. Giacciono in una fossa comune, senza una croce, senza un nome, senza una benedizione di suo padre.
Così fu la vita di questa donna che in un periodo, secondo la destra fascista di quegli anni, praticava “il comunismo” e per conseguenza “il terrorismo” in Europa. Per alcuni il suo nome rimane inciso nei giardini della memoria come guerrigliera, assassina o chissà terrorista, per altri come una donna coraggiosa, che ha compiuto una missione. Secondo me, è una parte femminile di una rivoluzione che lottò per le utopie della sua epoca, e che alla luce dei nostri occhi ci obbliga a riflettere, un’altra volta su questa frase: “Non sottovaluti mai il valore di una donna.”

venerdì, gennaio 23, 2015

Earth Wind and Fire - "EWF" e "The need of love"



GLI INSOSPETTABILI è una rubrica che scova quei dischi che non avremmo mai pensato che... Dopo Masini, Ringo Starr, il secondo dei Jam, "Sweetheart of the rodeo" dei Byrds, Arcana e Power Station, "Mc Vicar" di Roger Daltrey, "Parsifal" dei Pooh, "Solo" di Claudio Baglioni, "Bella e strega" di Drupi, l'esordio dei Matia Bazar e quello di Renato Zero del 1973, i due album swing di Johnny Dorelli, l'unico dei Luna Pop," I mali del secolo" di Celentano, "Incognito" di Amanda Lear, "Masters" di Rita Pavone, Julian Lennon, Mimmo Cavallo con "Siamo meridionali"e i primi due album dei La Bionda di inizio 70's, il nuovo album dei Bastard Son of Dioniso, "Black and blue" dei Rolling Stones, Maurizio Arcieri e al suo album "prog" del 1973 "Trasparenze", Gianni Morandi e "Il mondo di frutta candita", il terzo album degli Abba, "666"degli Aphrodite's Child, la riscoperta di Gianni Leone in arte Leonero, il secondo album di Gianluca Grignani, Donatella Rettore e il suo "Kamikaze Rock 'n' Roll Suicide", Alex Britti e "It.Pop", le colonne sonore di Nico Fidenco , il primo album solista dell'e Monkees, Davy Jones, Mike McGear (fratello di Paul McCartney), Joe Perrino, il ritorno di Gino Santercole, l'album del 1969 di Johnny Hallyday con gli Small Faces, la svolta pop della PFM, oggi si torna ai primi 70's con gli esordi degli EARTH, WIND and FIRE.

Le altre puntate de GLI INSOSPETTABILI qui:
http://tonyface.blogspot.it/search/label/Gli%20Insospettabili

Nessun dubbio sulle qualità artistiche degli Earth Wind and Fire poderosa easy funk soul pop band che ha saccheggiato per anni ed anni le classifiche di mezzo mondo con un raffinatissimo sound e con brani epocali, da “September” alla stupenda versione di “Got to get you into my life” dei Beatles.
Meno conosciuti gli insospettabili esordi, il primo, omonimo, del febbraio 1971, il secondo “The need of love” del novembre dello stesso anno, a base di un duro funk, riferimenti espliciti a Sly and the Family Stone, Curtis Mayfield, James Brown, free jazz, i Temptations più psych, musica africana e latina.
Il tutto con testi a base di impegno sociale.
Esaurita la breve esperienza con il funk soul psych dei Salty Peppers (un paio di ottimi 45 nel 1969) gli EARTH WIND and FIRE registrano questi due fantastici album (e la colonna sonora del blaxploitation soft porno Sweet Sweetback's Baadasssss Song di Melvin Van Peebles, in stile James Brown funk), prodotti da Joe Wissert e con una line up diversa da quella che troverà il successo poco tempo dopo. Di fatto dopo questi primi lavori il gruppo si scioglie per riformarsi poco dopo.
“Earth wind and fire” sfodera già una sezione fiati protagonista a base di un brillante e spedito funk psych soul alla Sly come l’introduttiva “Help somebody” e in “Cmon children” o il tipico James Brown 70’s groove di “Moment of truth” mentre lo strumentale conclusivo sembra preso di peso da un album di Curtis Mayfield degli esordi.
Ancora più aspro e duro il successivo “The need of love”, a partire dai 10 minuti iniziali di “Energy”, esperimento tra funk, fusion, free jazz e afrobeat e Art Ensamble of Chicago.
Bellissima la soft soul ballad alla Al Green “I think about lovin you” e gran finale con un’ottima, sensuale, cover di “Everything is everything” di Donny Hathaway.
Due album sorprendenti, ricchissimi di groove, suonati già con grandissima perizia tecnica e immensa personalità.

giovedì, gennaio 22, 2015

Peter Beard



Grandissimo fotografo (oltre che scrittore, artista e playboy) PETER BEARD è stato protagonista nell’alta società new yorkese tra i 70’s e gli 80’s, collaborando e ritraendo personaggi come Andy Warhol, Francis Bacon ma soprattutto i Rolling Stones durante il loro tour americano del 1972 e David Bowie (e la moglie Iman), tra gli altri.
E’ però famoso in particolare per i suoi ritratti di panorami e animali africani (dove ne documenta malinconicamente il declino e il rischio d’estinzione) spesso uniti alla presenza di modelle (ha lavorato in questo ambito in particolare per Vogue), tra cui alcune famosissime foto di Veruschka.
Nel 2009 ha firmato il calendario Pirelli.

http://www.peterbeard.com/

mercoledì, gennaio 21, 2015

Trofeo Anglo-Italiano 1969/70 Swindon Town - Juventus 4-0



Per la fortunata serie dellle Grandi Partite Dimenticate ALBERTO GALLETTI ci porta alla fine dei 60's.

Trofeo Anglo-Italiano 1969/70
1° Giornata


Il 2 maggio 1970 la magna Juventus fece visita al County Ground di Swindon per disputare la prima giornata della prima edizione del Torneo Anglo-Italiano, la trasferta in uno dei più inverosimili teatri che abbiano mai ospitato le gesta dei giocatori bianconeri, si rivelò un autentico e disonorevole disastro.

Vista l’incombenza del mondiale messicano i campionati inglese ed italiano erano terminati in largo anticipo sulle date consuete, si decise così di prolungare la stagione a tutto il mese di maggio e giugno, dando la possibilità ad alcuni club di poter giocare ancora e fare qualche incasso in più.
La partecipazione del piccolo Swindon Town alla competizione fu anomala in quanto era l’unica formazione non di primo livello, aveva chiuso il campionato di seconda divisione inglese (da neopromossa) al 5° posto a 3 lunghezze dal Blackpool promosso.
I Robins furono ammessi a partecipare in quanto vincitori della Coppa di Lega inglese del 1969, quando si erano imposti all’attenzione nazionale battendo clamorosamente in finale per 3-1 l’Arsenal, ma essendo una squadra di 3° divisone non poterono essere iscritti alla Coppa delle Fiere, la federcalcio inglese decise così di premiarli con la partecipazione all’Anglo Italiano, creando così un clima di grande entusiasmo intorno alla squadra,entusiasmo che come vedremo si rivelerà travolgente.
Le gesta vittoriose della stagione precedente avevano rivelato agli appassionati giocatori come Horsfield e Noble, due ottimi goleador, ma soprattutto il fuoriclasse Don Rogers che strabilierà poi sui campi della I divisione con la maglia del Crystal Palace.
Le squadre scendono in campo in un sabato pomeriggio nuvoloso, una fiacca Juventus si barcamena per tutto il primo tempo cercando di contenere i volonterosi ed entusiasti attacchi inglesi e riesce nel suo intento di evitare danni senza sporcarsi le mani (e probabilmente neanche le maglie per non abbassarsi al livello di queste squadrette) e va al riposo sullo 0-0.

Alla ripresa del gioco si prosegue con lo stesso tran tran ma quando infine la mezzala Noble fa centro dopo un quarto d’ora i bianconeri crollano, la reazione, appena abbozzata, è sterile e non supportata da una concentrazione rivelatasi approssimativa, passano pochi minuti e il centrattacco Horsfield va in rete di testa raccogliendo un cross dello scatenato Rogers e firma poi la personale doppietta a pochi minuti dal termine, allo scadere va in rete anche Harland e suggella un fantastico 4-0 che manda in visibilio il pubblico di casa presente in buon numero.
Per la Juventus una pagina ignominiosa e una giusta legnata, figlia della solita mentalità secondo la quale si decide prima che certe partite non contano niente, e un incubo che si ripeterà pure nella partita di ritorno che vedrà lo Swindon Town vincente (1-0) anche al Comunale.
Per lo Swindon Town il cammino prosegue fino alla vittoria finale 3-0 al Napoli al San Paolo in una partita sospesa all’ 80’ per lancio in campo di pezzi di cemento (provenienti dalle gradinate, bottiglie e sassaiola).

Swindon, County Ground sabato 2 Maggio 1970
Swindon Town 4-0 Juventus
Swindon Town - Downsborough, Thomas, Trollope, Butler, Burrows, Harland, Smith, Smart, Horsfield, Noble, Rogers.
Juventus – Tancredi, Viganò, Cuccureddu, Roveta, Morini, Salvadore, Leonardi, Vieri, Zigoni, Marchetti Favalli.

Arbitro: Sig. A. D’Agostini di Roma
Reti: 60’ Noble, 66’ e 84’ Horsfield , 89’ Harland
Note: Spettatori 12879

martedì, gennaio 20, 2015

DUKE VIN e la nascita della sound system culture in Gran Bretagna



Con questo interessantissimo articolo il blog inizia la collaborazione con ANTONIO ROMANO, "uno di noi".
Grazie !!!!!
Keep the faith !


Fine anni ‘40. Nella Gran Bretagna post-bellica, bisognosa di braccia per la ricostruzione e per la ripresa economica, sbarcavano le prime ondate di emigranti dalle colonie delle Indie Occidentali, desiderosi soprattutto di un futuro migliore in terra d’Albione.
Stabilendosi, naturalmente portavano con sé il retaggio delle proprie vite precedenti, il proprio gusto per i cibi caraibici, il suono della propria musica preferita, il calore del proprio sole, cercando di ricreare tutto questo nella loro nuova casa.

Così, anche nella vecchia e conformista Gran Bretagna, i weekend iniziarono ad animarsi, prima, con le blues dance o i shebeens (che letteralmente significa, birra allungata), che erano vere e proprie feste danzanti a base di jump blues, swing, calypso e ritmi latin, organizzate nelle abitazioni private e, successivamente, con la nascita dei primi club, davvero un angolo di Giamaica nelle fredde notti inglesi.
Questi primi club erano gestiti da due personaggi già all’epoca leggendari come Count Suckle, fondatore a Londra del Cue Club a Paddington, e Duke Vin.

Entrambi, secondo la leggenda da loro stessi narrata, arrivarono in Gran Bretagna a bordo di una canoa, nel 1954.
Duke Vin, al secolo Vincent Forbes, in realtà, si sa che arrivò in Europa da clandestino e che nei primi tempi lavorò come operaio ferroviario guadagnando meno di 5 sterline a settimana e che visse nel sobborgo sottoproletario di Notting Hill.
Duke Vin aveva, inoltre, già lavorato regolarmente e con successo nel pioneristico music business in Giamaica, come selecter presso il sound system di Tom “The Great Sebastian” Wong, spalla a spalla con il dj Count Machuki che sfoggiava il suo fluente jive talkin’, antenato nero-americano di quella che si sarebbe poi sviluppata come la tecnica giamaicana del toasting.

Come egli stesso disse, “quando arrivai qui la gente era diffidente, non sapevano proprio cosa fosse un sound system”, ma nel corso della propria vita e della propria attività di selecter è assurto ad un rango quasi semi-mitologico presso la comunità caraibica in Gran Bretagna.
Con la propria collezione di 78 e 45 giri, infatti, si fece ben presto un nome anche nelle notti londinesi, suonando dapprima nelle feste in casa, poi divenendo resident del Cue Club di Counte Suckle, ed infine costruendosi da solo e fondando il proprio impianto sound system.
“La polizia mi perseguitava. Un ispettore una volta mi disse che se avessi ancora una volta suonato con il sound system mi avrebbe sbattuto dieci anni in galera.
Una volta un altro poliziotto con una vanga mi distrusse lo speaker dicendo che non voleva queste cose nella sua nazione.
Ma, nonostante tutto, i ragazzi neri e bianchi amavano la mia musica e dicevano che non ne avevano mai ascoltata di così bella prima.
Persino i Rolling Stones ed i Beatles venivano a vedermi suonare.”


Con il sound system e con i suoi dischi, iniziò a partecipare ai primi pionieristici “sound clash”, sfidando a colpi di rarità discografiche gli altri sound che nascevano nel frattempo, come quello di Count Clarence e dello stesso Count Suckle, sbaragliando puntualmente i propri avversari. “Non sono mai stato battuto in un clash, nemmeno una volta”, dichiarò.
Le sue serate, parliamo ancora del periodo a cavallo tra gli anni ‘50 e i ‘60, in giro nei miglior club underground di Londra, dal Flamingo al Roaring Twenties allo stesso Cue Club, iniziavano ad essere affollatissime, e non solo di immigrati giamaicani ma anche di ragazzi inglesi, che trovavano quelle feste, così lontane dalla piatta vita culturale dell’Inghilterra del tempo, eccitanti e folgoranti, non solo perché potevano appagare la propria sete di musica infuocata, ballando, fianco a fianco con degli uomini dalla pelle nera (non ne avevano mai visti prima!), con i brani dei loro idoli del r’n’b afroamericano (Fats Domino, Chuck Berry, Whynone Harris, Ray Charles, ecc), ma anche perché potevano vedere, toccare e restare totalmente ammaliati e affascinati dall’eleganza degli abiti e del portamento dei loro coetanei caraibici.

Nel frattempo, in Giamaica stava nascendo una autoctona industria discografica, le prime band, i primi cantanti e le prime star, che suonavano una strana ed elettrizzante forma di ritmo e blues che si sarebbe poi evoluta nel più maturo ed originale ska: i primi pezzi giamaicani che Duke Vin suonò sul proprio sound furono “Boogie in my bones” di Laurel Aitken e “Eastern Standard Time” di Don Drummond: “Quando suonai quei dischi al Flamingo, i ragazzi impazzirono!”.

Alla fine degli anni ’60 fu anche arrestato con l’accusa di sfruttamento della prostituzione, ma lui si dichiarò sempre innocente.
In carcere studiò le proprie discendenze dai Maroon, la comunità di schiavi giamaicani che alle metà del XVIII secolo si erano ribellati alla Corona Inglese riuscendo a resistere alle sue truppe, eredità di cui andò sempre fiero.
Infatti, uscito di galera, intraprese una causa contro il governo britannico sostenendo che, secondo il trattato che i Maroon strinsero con la Corona nel 1739, ed essendo egli stesso un Maroon, fosse esente dal pagamento delle tasse.
Vinse la causa.
Con i soldi che gli furono restituiti, Duke Vin costruì un sound system più grande e si comprò una casa.
Negli anni ha continuato a portare i suoi dischi in giro per tutto il Regno Unito e per l’Europa, riproponendo i suoni di quegli anni d’oro, quel ventennio fantastico che va dalla metà dei 50s alla prima metà dei 70s.
Recentemente aveva dichiarato, a proposito del carnevale di Notting Hill, di cui è stato uno dei fondatori:
“La gente ama la mia musica ed infatti non c’è niente come il Carnevale. Gente di tutte le nazionalità vengono ad ascoltare e ballare la mia musica. Amo tutto questo. E’ innato in me, lo tengo nel sangue, è la mia vita. Solo la morte mi farà andare in pensione.”
Che, purtroppo, è arrivata.
Duke Vin se n’è andato il 3 novembre del 2012, dopo una serie di infarti, in un letto d’ospedale, a 84 anni, pochi giorni dopo la sua ultima serata.

lunedì, gennaio 19, 2015

Il valore delle recensioni oggi



C'era una volta il tempo in cui uscivano poche riviste musicali e altrettanti pochi giornalisti (con o senza virgolette) decretavano la bontà di un disco, davano indicazioni, indirizzavano l'acquirente spesso in modo decisivo.
Poche fonti ma generalmente accreditate e autorevoli.

Internet ha prodotto centinaia, migliaia di "giornalisti" (con le virgolette), recensori, "giudici" (incluso questo blog ben inteso).
Esclusi i casi limite (stroncature o esaltazioni unanimi) quanto conta ancora la recensione soprattutto in tempi in cui l'accesso all'ascolto dei prodotti musicali è pressochè aperto a tutti e gratuito (e quindi permette a tutti di farsi un'idea senza aspettare qualcuno che ti dica se è bello o brutto).
Hanno ancora un senso ? Ma soprattutto spostano in qualche modo le vendite ?

domenica, gennaio 18, 2015

Bosco Tosca e Pievetta



La fine del mondo è la rubrica domenicale che va ad esplorare i luoghi abbandonati dalla storia o comunque estremi.

Non è il caso odierno, visto che Bosco Tosca è praticamente dietro casa ma ha una storia particolarissima e strana che mi sono fatto raccontare dall'amico Daniele Tosca che, tra l'altro anima un bellissimo blog: http://www.viveresisteresistendo.com/

I precedenti post:
http://tonyface.blogspot.it/search/label/La%20fine%20del%20mondo

Parliamo di BOSCO TOSCA e del "gemello" PIEVETTA a due passi da CastelSanGiovanni, provincia di Piacenza, due paesini di pochissime case proprio sotto l'argine del Po.
Due rari esempi di antichissime comunità ALBANESI nel nord Italia, due borghi dove si sono insediati, vittime di una delle tante diaspore della Terra delle Aquile da tempo immemore.
Gli Arbëreshë (detti anche albanesi d'Italia, italo-albanesi, greco-albanesi ed arbereschi) sono i nipoti di quelle remote migrazioni che ancora parlano la lingua d’origine che arrivarono secoli fa prevalentemente nel centro e sud Italia (Calabria in particolare ma anche Sicilia).
Si calcolano attualmente in 100.000 gli Arbereshe in Italia.
Bosco Tosca e Pievetta sono un'assoluta anomalia di stanziamento "padano" che si palesa anche guardando i cognomi degli abitanti: tutti Tosca e Albanesi.

A Bosco Tosca ci tengono a precisare che gli "Albanesi sono loro di Pievetta (tutti hanno cognome Albanesi...!!...), noi siamo i Tosca e siamo venuti dal sud dell’Albania, siamo i parenti dello Skanderbeg noi: loro, gli albanesi, sono quelli li di Pievetta arrivati dal nord Albania".
Bosco Tosca è sempre stata una "rocca rossa" mentre la chiesa che sorge a Pievetta ha spostato le idee più al "centro".

Ma come dice Daniele: "Quando esce il Po e fa paura si diventa comunque tutti dello stesso partito e ci si aiuta e incontra sull'argine in perfetto stile Don Camillo e Peppone".
Aggiunge: "Molti rinnegano queste origini per pura ignoranza".
Arbereshe famosi sono Stefano Rodotà, Bruno Jacovitti, il musicista Tito Schipa Jr.

sabato, gennaio 17, 2015

Rock n Goal a Chiusi (Siena)



GEC Gruppo Effetti Collaterali annuncia:
GEC and Book - Effetti ColLETTERARI
3° appuntamento:
18 gennaio 2015, ore 18.30 @"Brasserie" Piazza XX Settembre, 18 - Chiusi (SI)
Bacciocchi&Galletti presentano "ROCK 'N' GOAL".


Alla presenza degli autori ANTONIO BACCIOCCHI e ALBERTO GALLETTI, il cronista e scrittore RICCARDO LORENZETTI condurrà la presentazione del libro di estremo successo.
Interverranno alla presentazione MASSIMO DEL GIUSTO (attaccante della Nuova Societa Polisportiva Chiusi) e FRANCESCO FERRETTI i (allenatore della ADS Citta di Chiusi).


*** INGRESSO LIBERO ***

https://www.facebook.com/events/544917168979031/permalink/551963938274354/

https://www.facebook.com/RocknGoal.Calcio.musica.Passioni.Pop

venerdì, gennaio 16, 2015

Il Papa, i mods e i rockers



Nel 1964 perfino Papa Paolo Sesto si occupò di Mods e Rockers e precisamente in un discorso di domenica 16 agosto ai giovani del Terzo Campo dei Rovers (Boy Scouts) dell’ Asci.

Il passo tratto dal lungo discorso è questo:

Perché vi confideremo, carissimi giovani, che una delle impressioni più amare, che Ci viene dall’osservazione del quadro della vita contemporanea è quella delle immagini di tanti volti tristi, emaciati, stanchi, beffardi, di giovani presentati come tipi caratteristici della presente generazione; non dico soltanto delle facce infelici dei teddy boys o dei Mods and Rockers, che rivelano drammi profondi, pietosi e precoci di dolore, di sfiducia, di vizio, di cattiveria e di delinquenza; ma anche di tante altre facce giovanili caratterizzate da stravaganze esistenzialiste, irrequiete e gaudenti, avide di godere la vita come un’esperienza senza senso, uno spettacolo falso ed effimero, un tentativo di voluta follia; e non un dono sublime ed unico, un dovere nobile e grave, un amore puro e sacro.
Pur troppo questi tipi fanno parlare di sè, nella letteratura, nel cinema, e nei ritrovi della esibizione e della dissipazione mondana; essi diventano abusivamente rappresentativi, diventano campioni e maestri, e trovano in tanta gioventù superficiale facili imitatori e seguaci, con la complicità di chi li circonda di curiosità e di pubblicità.


Tematica che verrà ripresa nel 1967 il 1° luglio dal bollettino Salesiano.

Tanti ragazzi normali si lasciano abbacinare dal comportamento libero di una minoranza spregiudicata, e anche se non si ribellano tuttavia coltivano in sè un'irritazione profonda verso gli adulti, una nostalgia sottile del mondo fascinoso e proibito della protesta. Questo stato d'animo è pericoloso perchè intralcia il loro normale iter alla maturità intellettuale, affettiva, sociale e religiosa. Che fare? Non è tutto negativo nella protesta dei giovani: ci sono elementi che si possono utilizzare e orientare al bene.
Zazzere fluenti, pantaloni a zampa d'elefante, camicie a fiorami e occhiali op, "bottoni" con scritte inglesi pesantemente allusive, motociclette fracassone e giacche alla James Bond, chitarre, dischi e mangiadischi, canzoni di protesta e strilli yé-yé, sfilate con cartelli, teatri sfasciati, zuffe a colpi di catene di bicicletta, balere e Pipers e scantinati proibiti ai maggiori di anni 20...
A elencare tutti i fenomeni di costume che accompagnano la protesta giovanile, a volte scanzonata e a volte rabbiosa, non si finirebbe più.
Ma, si tratti di beatniks americani, rockers e mods inglesi, provos olandesi, blousons noirs francesi, pop svedesi, o capelloni italiani, è bene dirlo subito: essi rappresentano un'esigua minoranza.
Minoranza che sarebbe anche trascurabile e non farebbe problema per genitori e educatori, se non fosse vistosa come i colori violenti dei suoi vestiti, chiassosa e frenetica come le batterie dei suoi complessini, propagandata per motivi commerciali quasi mai lodevoli, proposta addirittura come modello della gioventù autentica, preconizzata come l'umanità futura. Un'irritazione sottile, una nostalgia sofferta.
Questa minoranza di "professionisti della protesta" finisce per diventare problema, a causa del profondo influsso che esercita sull'altra gioventù: su quella che vive più o meno nei ranghi, e che viene considerata normale.
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